Che lavoro fai, mamma?

Bon P, e niente, questo è il sedere di Kim Kardashian.

Ho un ricordo molto nitido: nell’enorme e bellissima mensa
della mia scuola, detta anche refettorio (trattavasi di edificio fascista),
quando avevamo finito di mangiare, facevamo un gioco. Indovina che lavoro è.
Ognuno mimava in qualche modo un lavoro, chi il dottore, chi il barista, chi l’operaio.

Ma quando stava a me… Beh, modestamente non mi batteva
nessuno. E sapete perché?
Perché nemmeno io sapevo che lavoro mimavo.
Era quello di mio papà, di cui conoscevo ogni piccolo gesto,
ma di cui non avrei saputo né dire il titolo, né tantomeno spiegare in cosa
potesse consistere.
Il cenciaiolo. Ho scoperto solo molti anni dopo che si
trattava di uno dei lavori più storici della mia Prato.

Mamma, che lavoro fai?

Vi hanno mai fatto questa domanda?


Nel loro immaginario, andiamo da qualche parte da mane a
sera, probabilmente a colorare, giocare in cortile, correre. Solo che non ci
sporchiamo. Siamo grandi, noi. Mangiamo anche a mensa, ovviamente. E abbiamo
tanti amici, anche qualche spasimante. 

E’ stato facile spiegare alla P1 cosa faccio. Più o meno.

E niente P1, sono giornalista.

Ah, e cosa fa una giornalsita?

Niente, scrive.

E cosa scrive? Scrivi in attaché?

Ehm, no, scrivo al computer. Sai, succedono cose e tu ne
scrivi per informare gli altri. Scrivere è l’unica cosa che so fare, in verità.

Ok, questione chiusa.

E il babbo… che lavoro fa?

Per spiegarglielo faccio come quando compilo i fogli per la
scuola: dico manager. Quando ci siamo messi insieme, 9 anni fa, ho impiegato
diverso tempo per capire cosa facesse. Perché è un informatico, ma lavorava coi
numeri. Ma quindi cosa fai, calcoli delle probabilità? No, mi occupo di bla bla
bla.

Ma un bambino, cosa capisce realmente?
Il giorno del mio compleanno ho lavorato. Era una domenica
ma c’era il Festival di Cannes e quindi ero in ufficio. Le bimbe sono venute a
trovarmi. Si sono sedute alla mia scrivania, hanno scritto, hanno toccato, si
sono riempite gli occhi di quella parte di me che non conoscono, che sta
lontana da loro tante ore, con lo stesso entusiasmo con cui mi mostrano cose e
persone che occupano le loro giornate.

E poi, qualche sera fa. Sai P1 che ho cambiato lavoro?

E non scrivi più in quel posto dove sono venuta io?

No, lavoro sempre lì, ma faccio un’altra cosa. Non scrivo
più.

E cosa fai, mamma, se non scrivi?

Ehm…Gestisco dei progetti. Delle persone. Dei clienti, sai?

Ma non avevi detto che scrivere era l’unica cosa che sapevi
fare?

Già. Per questo ho cambiato lavoro. Perché a volte nella
vita bisogna rischiare. Buttarsi. Osare. Imparare. Cadere, magari, e
riprendersi poi più forti di prima.
E insomma, mi chiedo ancora oggi perché, nella mia
situazione, ho spinto tanto per lasciare un lavoro così comodo, che facevo ad
occhi chiusi, per qualcosa di cui non so praticamente niente. Ma non è forse
questo, il bello della vita? Provare qualcosa di nuovo e sì, renderci conto che
siamo capaci di farlo? Sognare di poter migliorare, sempre? Investire su noi
stesse per diventare persone più complete, invece di accontentarsi di ciò che
ci fa comodo perché almeno non fatichiamo?

Per me sì, è così.

Peccato non sappia come mimare il mio lavoro.

E voi?!

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