Viaggi insoliti: Minsk e la Bielorussia

Lo chiamo viaggio, dovrei chiamarlo vita.
Dopo otto anni sono tornata in Bielorussia, per la settima volta. La prima volta che ho messo piede nell’ex Repubblica Sovietica avevo 20 anni: studiavo Scienze Politiche, non sapevo niente del paese, parlavo due parole di russo, la sera facevo la cameriera in un pub, qualche pomeriggio la commessa e lavoravo come giornalista per una tv locale.
A Minsk ho vissuto, appena laureata, e ho insegnato italiano all’Università Statale, facoltà di Relazioni Internazionali.
Ne riconosco l’odore: ed è proprio quello che mi ha fatto piangere, appena ho varcato la porta dell’aeroporto. Un odore acre, difficilmente descrivibile, che si fa sempre più pungente via via che ci si sposta verso l’interno. Ricordo di aver pensato, una volta, arrivata a Khojniki, al confine con la zona di esclusione – quella di Chernobyl – che quell’odore era l’odore di ciò che è sbagliato, di ciò che non va come dovrebbe.
Con gli anni – e i viaggi – ho capito che quello è semplicemente l’odore della Bielorussia. Quello, mischiato all’odore proveniente dalle grate della metro, che ho cercato in ogni città che ho visitato come si cerca tra tanti sconosciuti il profumo di un uomo che si è amato.
È così: per me la Bielorussia è un amante, il primo grande amore, quello da stomaco rovesciato, da corse folli, da litigi coi genitori (mio papà non ha mai capito perché l’amassi così tanto, e non ho avuto il tempo di mostrargliela, la mia Bielorussia), quello per cui tradirei chiunque (sette viaggi, sette, quando non avevo una lira rinunciavo a tutto ma non alla Bielorussia).


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Ho varcato quella porta il 27 agosto 2016. Ad attendermi, dall’altra parte, Liuda, suo marito Vadim e il loro figlio minore, Vania. Liuda l’ho conosciuta nel 2005, a Prato: era l’accompagnatrice di un gruppo di bambini, l’unica che sia mai entrata in casa mia in 12 anni di accoglienza. Liuda è un po’ mamma, un po’ amica, un po’ sorella. È semplicemente lei, come lo è suo marito, un po’ papà, un po’ marito, un po’ amico, un po’ fratello. Sono la mia famiglia, coloro che mi hanno accudita per tutti i mesi che ho lavorato lì, che mi hanno curata quando mi sono ammalata, che mi hanno portato a pranzare in un cimitero, che mi hanno fatto sentire a casa.
La strada per l’aeroporto è sempre la stessa: chilometri di foresta, sempreverdi e betulle, ci separano dalla città. La biblioteca nazionale, a forma di diamante, ci avvisa che siamo alle porte del centro: quando l’hanno inaugurata, il primo maggio 2006, io c’ero, e mi sembrava un mostro. Ora sembra così piccola, intorno a decine di nuovi edifici, di palazzi infiniti, di casermoni di vago sapore sovietico che strizzano l’occhiolino al design moderno.
biblioteca nazionale minsk
Noto subito che la strada dei miei amici adesso è asfaltata: ricordo quando la percorrevo in primavera, col ghiaccio che si scioglieva, trasformata nel letto di un fiume quasi asciutto.
Tutto è cambiato, intorno a me. I palazzi si moltiplicano, le case hanno dei piani in più, persino quella di Liuda e Vadim adesso ha il tetto. I negozi di materiale per arredamento e fai da te sono in ogni angolo, i sushi si susseguono uno dopo l’altro, io resto incollata al finestrino, con la guancia appiccicata al vetro, come i bambini quando percorrono una strada nuova, e cerco di memorizzare tutto. Fotografo.
minsk
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Chiudo gli occhi e ricordo com’era: diverso.
Mi dico che è normale, che dopo otto anni per forza una città cambia, è il progresso.
Ma da un amante non ci si aspetta che vada avanti, ci si aspetta che stia lì ad aspettare il nostro ritorno, per ritrovarci proprio come allora, con le buste della spesa che segano le mani, i filobus strapieni e le unghie in gel coi disegnini. Ma non ha senso: le buste non le porto più, non ho più bambini a cui comprare la Fanta e la mozzarella, le unghie non me le mangio più e ora ho due figlie.
Eppure, per qualche motivo, io mi sento quella di allora, qui. Entro in città come se il tempo non fosse mai passato, sono sempre rimasta seduta qui, su questa Passat degli anni Ottanta, a guardare i tronchi esili delle betulle piegarsi al vento, a contare le croci di Kurapaty, la fossa comune degli anni Trenta scoperta nel 1988.
Il primo giorno è di riscoperta. Andiamo a trovare gli zii di Liuda e parliamo di politica, di lavoro, di pensioni. Lui mi regala una moneta da collezione, perché gli sembro bellissima (è l’effetto che fanno le more sui russi). Giriamo in auto senza meta, scopro che Lukashenko ha un nuovo palazzo, vicino al lago Komsomolskoe, enorme e megalomane come lui, e mi ricordo di quando mi sequestrarono il video che stavo registrando, uscita dall’hotel, davanti al suo palazzo di allora. Avevo 22 anni e mi faceva paura.
Vedo almeno 5 laghi, in città, uno lo percorriamo a piedi, io e Liuda, in una lunghissima passeggiata. L’altro lo esploriamo in tre, zigzagando tra le famigliole al sole, ragazzine magre e bellissime accanto a ragazzoni palestrati e depilati, bambini biondi e belli come putti parcheggiati accanto ai loro passeggini YoYo e Bugaboo.
È il Komsomolskoe, costruito artificialmente alla vigilia della guerra, per dare respiro alla città.
Il secondo giorno cammino di nuovo sulle pietre che hanno accompagnato i miei passi per un periodo della mia vita. Un periodo indimenticabile. Il mercato Komorovskji è chiuso, è lunedì. Jakub Kolas mi saluta dall’enorme statua di fronte alla quale davo appuntamento. Allo Zum avranno la bambola di Masha? No. Non quel giorno. Però appena fuori, per strada, vendono dei bulachki s mokom (pane dolce con semi di papavero) appena sfornati che valgono tutto il viaggio. I miei preferiti. Il Lido non ha chiuso: il miglior self service della città, cucina tipica a prezzi stracciati, meno 30 per cento dopo le dieci di sera.
Dudutki. Il martedì prendiamo l’auto, una cugina, e andiamo a Dudutki, villaggio museo fuori dalla capitale. Percorro la periferia con lo sguardo, le foreste, la pianura sconfinata, osservo le case in legno colorate, e per un attimo mi sembra di essere giù, nella provincia di Gomel, quando avevo 20 anni, due soldi in tasca, e quei soldi non erano importanti e spesso restavano lì, a Vetka o a Stolbun, da qualcuno che ne avrebbe fatto sicuramente qualcosa.
minsk
Ci penso con nostalgia. Quando tornerò là?
Ma oggi sono qui, a Dudutki, a bere vodka artigianale e comprare souvenir inutili, a fare un picnic con stoviglie vere, gatti affamati e vespe insolenti.
Il mercoledì è giorno di festa, non si può uscire: Vania compie 21 anni e con lui è un po’ il compleanno di tutti noi. Lo ricordo bambino, timido e impacciato, e ora siamo qui in venti a cantargli tanti auguri in inglese. La fidanzata gli ha preparato una torta, fuori è cioccolato ma dentro è verde, ooooh, esclamano tutti, non ce l’aspettavamo. È verde ed è fatta con farina di riso, farcita con pera e banana, e penso che sì, sono cambiati questi bielorussi, che suonano in un sottopassaggio per raccogliere i soldi per andare a Mosca a vedere i Muse, che stanno lavando i piatti della cena quando noi torniamo a mezzanotte e mezzo, dopo aver accompagnato la nonna a casa. Sono cambiati ma non sono così diversi dai tanti bambini che ospitavo in casa mia, a cui mi dedicavo ogni giorno della mia vita: in loro riponevo la speranza di un mondo migliore, a loro cercavo di insegnare a sognare, a volere di più, a mettere il naso fuori dalla Bielorussia. Questo è il risultato?
minskoe more mare di minsk
Il mare di Minsk, minskoe more. C’è un posto magico dove si fa surf, si mangiano shasklik – spiedini di carne – nel bosco e si prende il sole. È artificiale, anche quello, ma io voglio andarci, e rivederlo. Manca il sole a far capolino, ma mi basta l’odore degli abeti e il ricordo di un autunno di undici anni fa a farmi stare bene.
La città mi manca. Ho bisogno di passeggiare, di respirarla, di studiarla. Il teatro dell’Opera e del Balletto finalmente è finito, mi sembra meraviglioso, mentre ne scorgo i dettagli attraverso i giochi d’acqua della fontana. Il circo, il viale principale – che io continuo a chiamare Skorina, nonostante si chiami Nezalezhnasci – in bielorusso – e Nezavisimosti – in russo. Il palazzo della Repubblica, Nemiga, l’isola della lacrime – è lì che mio marito si è inginocchiato – la via Lenina, la piazza della Vittoria e lui, il mio Svisloch, il fiume sul quale vivevo e che nutriva i miei sogni di ragazza. È lui che fissavo, bianco, immobile e gelato, la notte del 19 marzo 2006, quando Lukashenko vinse le elezioni per la terza volta, dopo aver fatto indurre un referendum per poter essere eletto più di due volte. Lo guardavo perché era lui, lo Svisloch, a trovarsi nella traiettoria tra casa mia e il palazzo del Presidente, quello vecchio. E lo guardavo, mentre sotto casa vedevo sfilare i carrarmati e i blindati, lo guardavo rialzando poi di scatto la testa, come una bambina, nella speranza di vedere la bandiera abbassarsi, sul palazzo, per lasciare spazio a quella dell’opposizione, quella dell’indipendenza, bianca-rossa-bianca.
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Gli ultimi acquisti, gli ultimi odori, gli ultimi passi, Una serata a teatro perché che viaggio sarebbe, senza teatro? Un’ultima lunga cena a base di shashlik di pollo, lo zio è venuto a portarmi un’altra moneta, il fascino italiano non perdona, guardo questa casa, la casa di Liuda e Vadim, e d’un tratto me ne rendo conto.
La vita è andata avanti, ma nessuno mi impedisce di continuare ad amare: il prossimo viaggio qui sarà con le mie figlie, perché è bello anche continuare a correre.
E a sognare.

Consigli pratici

Voli diretti per Minsk: Belavia da Milano (sui 200 euro a/r). Non diretto: Bergamo Vilnius con Ryan Air, poi 15 euro di bus.
Visto: obbligatorio solo se non si arriva all’aeroporto di Minsk (in treno, bus o altro aeroporto), costo 60 euro da fare in ambasciata a Roma (anche con corriere) o in consolato a Milano. Serve l’invito di un privato o una prenotazione alberghiera. Per soggiorni al di sotto di 30 giorni con arrivo all’aeroporto Minsk-2 non serve più il visto.
Clima: freddo da ottobre ad aprile, mite o caldo il resto del tempo.
Sicurezza: paese sicurissimo
Caratteristiche del paese: pianeggiante, migliaia di laghi e fiumi, fauna e flora spettacolari. Il campeggio e l’accoglienza si stanno sviluppando ovunque.
Tempo stimato per visitare Minsk: tre giorni, compreso il museo della grande guerra patriottica. Se piacciono i parchi contare anche 5.
Costo della vita: da turista come in Italia, con due dritte da locali un po’ più basso.
Locali: bar, ristoranti, pasticcerie, discoteche, teatri, non manca nulla.
Stagione migliore: maggio e settembre.
Lingua: russo (e bielorusso), ormai in molti parlano inglese.
Stipendio medio mensile: 200 dollari
Sistema politico: dittatura
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