Il diritto di non essere wonder woman

Quando mi sono trasferita a Parigi, avevo 27 anni e una bambina nella pancia. Ero in maternità dal mio lavoro a tempo indeterminato, che lasciavo per seguire i sogni di carriera (condivisi) di mio marito.

Quando mio marito si è trasferito in Pakistan, avevo 31 anni, una bambina di 3 anni e mezzo e una di 18 mesi. Lavoravo a tempo pieno, sempre a Parigi, e gli ho chiesto di non partire. Ma è partito.
I primi tempi sono stati di puro terrore: ho perso 10 kg, la notte non dormivo per la paura che succedesse qualcosa a me o alle bambine e non avessi nessuno su cui contare veramente.
Poi mi sono abituata.
È arrivato l’inverno, e le nostre mattine si sono fatte più dolci. Riuscivo ad uscire di casa in anticipo. Avevo la casa in ordine.
Le cene non mi spaventavano più. Ogni sabato facevamo la spesa, noi tre, a piedi, seguendo sempre gli stessi passi, le stesse orme, gli stessi movimenti, comprando sempre gli stessi prodotti, quelli che avrebbero sfamato le mie figlie durante la settimana.
All’improvviso ho capito che potevo farcela: alzarmi alle 6.30, prepararmi decentemente, preparare il latte a una, svegliare l’altra, cambiare il pannolino a una, lavare l’altra, vestire una, aiutare l’altra a vestirsi. Essere a scuola in orario, senza aver dimenticato niente e pure sui tacchi. Magari anche col rossetto.
Andare in ufficio, fare tutto quello che dovevo fare, prendersi qualche complimento, pranzare coi colleghi, rientrare a casa, cucinare, sistemare tutto, prepararle per la notte, leggere una storia, due storie, tre storie, ancora una mamma, poi fare la gara dei baci, mille baci bavosi, spostare la piccola nel suo lettino, riordinare la cucina, fare una lavatrice, stendere una lavatrice, depilarmi, mettermi lo smalto, leggermi un libro, guardarmi una serie, dormire.
Ce l’avevo fatta.
Ero diventata wonder woman.
Potevo tutto, e lo sentivo. Non avevo bisogno di niente e di nessuno.
Tutto e tutti mi sembravano superflui, sempre un passo dietro di me, sempre meno bravi di me, sempre meno wonder di me.
Io potevo.
Potevo gestire due bambine piccole da sola, potevo lavorare a tempo pieno, potevo essere bella e vestita bene, potevo avere le unghie sempre pittate, la casa sempre in ordine, invitare gente a pranzo, cucinare bene, avere i fiori freschi, chiamare la guardia medica di notte e alle 6.30 essere in piedi come sempre, per portarle a scuola. Tutto.
Poi però mi sono fermata. E ho capito che non era giusto. Per niente.
Non era giusto che quando mio marito tornava a casa, ogni due mesi, fossi io a mettere a posto anche per lui. Non era giusto non chiedere aiuto a chi me ne offriva. Non era giusto fare più di quanto mi veniva chiesto sul lavoro, sempre e comunque.
Non era giusto che io mi sentissi in dovere di apparire wonder woman.
E l’ho sentito, il bisogno di lasciarmi andare. Di rovesciare tutto, di mandare in aria la mia vita, di prendere le bambine e scappare in Italia, mollare mio marito, mollare il lavoro, mollare le finte amicizie, mollare una città che ti prende tutto e ti ammazza così come sei, nuda e senza protezione.
E invece no. Parigi è mia, e voi lo sapete. Il lavoro è mio, perché io sono fatta per lavorare. La vita è mia e non potevo sprecarla a cercare di dimostrare la mia perfezione, la mia invincibilità, che io potevo, potevo tutto.
E allora che ho fatto?
Ho chiesto aiuto. A chi realmente poteva darmene.
Alla mia fantastica vicina che tante volte si era proposta. 73 anni e nessuna voglia di fare la babysitter, ma sempre pronta a tirarmi fuori dai casini, c’è la bambina da andare a prendere in fretta e la tata non può, io ci metterei un’ora almeno. Ho bisogno di bere un bicchiere di vino. Ho bisogno di sfogarmi. Ho bisogno di sapere di poter contare su qualcuno, qualcuno che mi vuole bene per come sono. E lei era lì. Ed io ero lì per lei, incredibilmente.
Alle mie preziose amiche, che mi hanno fatto riflettere su quanto sia ingiusto essere wonder woman, su quanto in realtà avessi solo bisogno di ridere, di lasciarmi andare, di lasciare le briciole nel lavandino e vedere gli altri da una prospettiva diversa. Le mie amiche che mi hanno accompagnata in giro, che mi hanno tenuto le bimbe mentre facevo la spesa, che hanno cenato con me, dormito con me, pianto con me, riso con me. Siate anche voi amiche così, siate generose, siate altruiste, fatelo per amore.
Al lavoro, a cui ho smesso di dare di più, a cui ho detto ok, ho sempre fatto 200, posso fare 150? Posso prendermi un giorno libero se il nido è chiuso? Posso stare con mia figlia se è malata? Sì, posso, non cascherà il mondo, domani i problemi saranno ancora tutti lì ma almeno, per un giorno, per un giorno soltanto, ho pensato a me e alle mie figlie.
Sono stata wonder woman, ed ho capito una cosa: la vita è bella solo quando qualcuno ti ama abbastanza da capire quando hai bisogno di aiuto.
Questo post partecipa al progetto di Kinder Cereali, #NaturalmenteDallaTuaParte: un’inchiesta che ha posto l’attenzione sulle necessità delle mamme di oggi, sempre troppo critiche nei confronti di se stesse e sempre troppo preoccupate di apparire perfette. Essere wonder woman forse aiuterà gli altri, che saranno sollevati da certe fatiche, ma di sicuro non aiuterà noi, né la nostra felicità, né il benessere dei nostri figli. Per questo dobbiamo aprirci agli altri, offrire il nostro aiuto e, soprattutto, lasciare che ci aiutino. Magari ci stupiremmo sapendo quanta gente ci vuole bene davvero. Basta poco!
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