Il metodo danese per crescere bambini felici

Sapete che ultimamente mi sto interessando alla cultura danese: allo stile di vita hygge, al design danese, all’educazione dei figli. In realtà, è successo tutto un po’ per caso. Ho letto tanti libri sull’educazione dei figli, da I no che aiutano a crescere a Genitori Efficaci, dalla Montessori a Estivill passando per Gonzales. Quando ero incinta della mia prima figlia, la mia bibbia era Tracy Hogg e onestamente mi ha pure aiutato molto, seppur non sia mai riuscita a mettere il gioco dopo la pappa ma sempre dopo la nanna. Dopo alcuni anni di maternità, ero arrivata alla conclusione che si vada per tentativi, e io avevo trovato i miei, soprattutto perché crescere da sola due bimbe molto piccole mi aveva obbligato a modificare ogni mio modo di essere: se volevo sopravvivere, dovevo adattarmi io a loro, e non il contrario.

Il metodo danese per crescere bambini felici (ovvero come sono diventata un genitore sereno)

Leggere questo libro è stato illuminante, per due motivi in particolare: il primo, è perché gli elementi di cui parla sono alla portata di tutti, o quasi; il secondo, è perché molti li stavo già mettendo in pratica. Perché il metodo danese si basa principalmente su un pilastro: l’empatia, che è proprio quello su cui ho lavorato negli ultimi anni per capire meglio le mie bambine (soprattutto la mia primogenita, molto diversa da come me l’ero immaginata, e molto diversa da me), ma anche per salvare il mio matrimonio (se non avessi iniziato a capire mio marito, e a prendermi ogni tanto la giusta dose di colpe, ci saremmo lasciati sicuramente).

Il metodo danese spiegato in poche parole

Cos’ha questo metodo danese di tanto particolare? In realtà niente: il libro di Jessica Alexander e Iben Sandahl si basa sull’osservazione che una donna americana (la Alexander) fa della società danese rispetto alla propria, americana, tanto diversa, che cresce bambini viziati, prepotenti e perennemente insoddisfatti. Vi dice niente? La Alexander ha quindi deciso di scrivere questo libro insieme alla Sandahl, danese e psicoterapeuta in ambito familiare.

Attenzione: la società danese non è perfetta (e chi ci vive potrà dirlo per me), ma sicuramente offre ottimi spunti per crescere bambini in maniera più serena. Presente quando scleriamo per tutto, i bambini fanno capricci assurdi, non sappiamo come fare e vorremmo solo scappare? Ecco, questo libro ci offre spunti per evitare tutto questo, per sentirci meglio e soprattutto per vivere una relazione più serena coi nostri bimbi.

Il metodo danese: PARENT

P.A.R.E.N.T. è la sigla che riassume i pilastri del metodo danese. Ogni lettera ha un significato.

La P sta per Play, gioco: il gioco è fondamentale per i danesi. Non esiste che stiano tutto il giorno alla tv (e forse ricorderete che io ho “vietato” la tv limitandola, in particolare in settimana, ad un cartone a testa al giorno, che spesso diventa zero perché sono prese a fare altro, e con ottimi risultati), ma si privilegiano le attività: all’aria aperta anche se fa brutto (sono in Danimarca, in fondo), in casa con la fantasia e la creatività (fogli, colla, colori, tempere, di tutto) ma anche con il must danese per eccellenza: i Lego. Queste attività infatti non solo permettono ai bambini di far lavorare il cervello, ma li rilassano molto di più della vista passiva della tv o dell’iPad (che per carità, non è il diavolo, ma nemmeno dovrebbe essere il loro passatempo principale, soprattutto ad una certa età). Lasciate che giochino da soli, che litighino, spegnete tutto, fate in modo che possano esprimersi. In questo modo svilupperanno la resilienza, ovvero la capacità di affrontare le difficoltà senza bisogno dell’intervento continuo dei genitori.

La A sta per Authenticity, autenticità: non mentite ai bambini, siate sempre onesti con loro. Non disegnate un mondo che non esiste solo per proteggerli, perché un giorno avranno a che fare con la vita. Inoltre, non lodateli per niente. Se un bambino vi porta un disegno e voi lo guardate distrattamente dicendo “uuuuh bravissimo”, non avrà nessun valore, anzi! Concentratevi di più sul reale risultato: prestate loro la giusta attenzione, siate onesti, se il disegno è brutto, chiedete cosa volevano fare e spingeteli a impegnarsi. Sarà utile in futuro, perché se li loderete sempre penseranno che tutto ciò che fanno vada bene e no, non è così. Non siate quei genitori che se la prendono con gli insegnanti per un’insufficienza…

La R sta per Reframing, cioè ristrutturazione: insegnate ai vostri figli a vedere le situazione da un altro punto di vista. Prima però dovete farlo voi. Soprattutto, eliminate le etichette. Un bambino che non parla con tutti e che viene tacciato per “timido” sarà sempre considerato timido e soprattutto se ne convincerà, innescando una terribile spirale. A me è successo proprio questo con Priscilla: tutti dicevano che era timida perché, all’inizio, si nasconde e non parla con nessuno. Ma io so che timida non è per nulla, quindi ho sempre risposto che no, non è timida, è che ci mette un po’ a sciogliersi perché preferisce conoscere le persone prima di farlo. Beh, è servito. Adesso, pur restando diffidente, ci mette molto meno a lasciarsi andare e ora addirittura parla con la maestra! Questo vale soprattutto per gli atteggiamenti negativi: è agitato, ha un deficit di attenzione, tutte le etichette possono marcare a vita il vostro bambino, convincendolo che sia così e basta. Pensateci! (e pensate a quelle che hanno messo a voi…). Non parliamo poi delle offese… “scemo”, “asino”, “cretino”… brrrr.

La E sta ovviamente per Empaty, Empatia, su cui vi ho già detto: l’empatia è la chiave del successo di ogni relazione. La capacità di ascoltare, di mettersi al livello dell’altro, di non contestare solo perché non condividiamo un atteggiamento. Mia figlia maggiore ha un carattere, per certi aspetti, contrario al mio: tende a lamentarsi, è impaziente, si lagna. All’inizio mi mandava nei matti e le mie reazioni erano tutto fuorché empatiche. Ricordo di aver sbroccato di brutto una volta, all’ennesimo capriccio di fronte a del cibo che aveva ordinato al ristorante. Eravamo in vacanza ospiti da alcuni amici, l’altra mamma aveva un approccio molto più permissivo del mio e quindi sua figlia raramente si lamentava: non vuoi la pasta che hai chiesto? Fa niente. Pur non condividendo il suo metodo – non sopporto lo spreco di cibo – ho capito in quell’occasione che la frustrazione di un bambino non va mai sottovalutata, nemmeno se ci manda in bestia. È dura, durissima, perché da una parte ci sentiamo sfidate, dall’altra vogliamo educare, ma metterci al loro livello ci aiuta, e aiuta loro a capire meglio i propri sentimenti. E vale anche nelle relazioni con gli adulti!

La N sta per No Ultimatums (nessun ultimatum), già. Per noi la parte onestamente più dura. Ormai Penelope conta 1-2-3 alla sorella proprio come ho fatto io per anni: se non fai questa cosa entro 1-2-3 niente cartoni niente compleanno amica niente questo e quello. Come poi ben sapete, il problema degli ultimatum non è solo che tanto non cambia nulla, ma anche che spesso è pure difficile mantenerli. Io in genere scelgo sempre cose applicabili, mio marito… lasciamo stare. Quindi, tanto vale non farli. E cosa si fa? Eh, piuttosto che promuovere la paura dovuta alla punizione, bisogna insegnare il rispetto. Niente urla, niente sculacciate, niente punizioni: spiegate bene le regole prima e che conseguenze ha il non rispettarle. Siate autorevoli ma non autoritari. Io ci sto ancora lavorando, lo ammetto.

Infine la T sta per Toghetherness, ovvero intimità: i danesi hanno una parola, come vi ho spiegato, che è hygge. Hygge sta per godersi la vita nelle sue piccole cose, apprezzare i momenti in famiglia, cucinare insieme, mangiare cibi buoni, sorseggiare caffè sotto coperte morbide, non aver bisogno di andare in capo al mondo per essere felici. Insegnate ai bambini ad apprezzare i momenti in famiglia. Cucinate insieme dei dolci, accendete delle candele, guardate un film insieme con tanti popcorn, valorizzate l’amicizia, state all’aria aperta e giocate insieme, evitate il più possibile i dispositivi elettronici quando siete insieme. Creare intimità in famiglia e con gli amici aiuta a sviluppare rispetto, sicurezza, condivisione, empatia, anche pazienza e capacità di attendere e inventarsi dei modi per passare il tempo senza sentire sempre “mi annoio” perché non ci sono tv o iPad… Provateci!

Il metodo danese per crescere bambini felici forse non è il metodo perfetto, perché in realtà il metodo perfetto ognuno lo costruisce sui propri figli. Ma risponde sicuramente a tante delle domande che ci facciamo noi genitori oggi: come gestire meglio i nostri figli? Bisogna ammettere che la società danese è meno stressata: si esce prima dal lavoro, si prediligono le bici alle auto, si predilige la vita personale a quella professionale e lo stato aiuta le famiglie, e questo non è poco, in termini di riduzione dello stress. Ma tentar non nuoce, che dite? Io per ora mi trovo bene.

E preparatevi a scoprire la Danimarca Hygge coi bambini: io e Chiara abbiamo in programma due viaggi in primavera!

E grazie all’ufficio del turismo danese per questo approfondimento.

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4 Comments

  • io senza saperlo applico in toto questo metodo! ed è vero soprattutto ai punti su empatia e niente ultimatum: sarò fortunata io che ho un figlio di base già ragionevole e inclice ad ascoltare, ma vedo che quando ho a che fare con bambini che hanno l’etichetta di esagitati, irragionevoli, disubbedienti, con me invece sono ligissimi perchè io sono sì autorevole, ma li tratto come persone e non come robottini o animaletti da addestrare/sgridare/tarpare. vedo in generale la grandissima differenza tra bambini con cui i genitori parlano, raionano, discutono esponendo cause e conseuenze, rispetto a quelli che sono costantemente puniti, rampognati, ignorati nelle loro frsutrazioni. certi genitori farebbero bene a farsi un bell’esame di coscienza: hanno figli che sono maleducati, poco rispettosi, disubbidienti, refrattari alle regole? bhe, guarda caso sono i bambini che si sentono dire sempre no, che si sentono urlare dietro se non maniano tutto, che si vedono continue punizioni (no cinema, no cartoni, no festina, no, no, no) come conseguenza di qualcosa che hanno fatto.
    essere empatici e non punire non vuol dire essere permissivi: io non ho mai messo mio figlio in punizione e uarda caso quando ha combinato qualcosa non l’ha mai più ripetuta dopo la sridata che gli faceva comprendere perchè avesse sbagliato! e io sono una molto attenta alle regole, al punto da essermi sentita dire spesso che sono troppo rigida, però contemporaneamente mi si rimprovera di essere una lassista perchè non punisco e sono morbida su certe cose (tipo non finisce quello che ha nel piatto? pace, l’importante è che non ci giochi e non trasformi il cibo in roba immangiabile)

    • Io sono assolutamente d’accordo con te, pur essendo arrivata a questa maturità relativamente tardi. Però – e senza assolutamente voler sminuire il tuo lavoro – purtroppo è molto più difficile quando i figli sono più di uno. Proprio perché, agendo con l’ascolto, non si riesce ad applicare lo stesso metodo a bambini con caratteri molto diversi tra loro. Per dire, per restare sull’esempio del cibo, mia figlia minore ha sempre mangiato molto e di gusto. Quando capita che non voglia continuare, le dico che non importa, perché so che non è né un capriccio né altro. La grande, però, spesso (come raccontavo) usa il cibo per manifestare diversi sentimenti, e quando era più piccola capitava che chiedesse cose e poi non le toccasse nemmeno solo perché magari aveva cambiato idea o non avevano l’aspetto che si aspettava. Beh, era davvero difficile! Non potevo lasciare (come faceva invece la mamma di cui sopra) che mangiasse semplicemente altro buttando quello che aveva chiesto, non lo ritenevo giusto né educativo. Ma non era affatto facile essere autorevole… Insomma, si naviga a vista, ma più i figli aumentano, più si complica proprio perché a comportamenti diversi si hanno reazioni diverse. (Ho altri milioni di esempi per cui con la prima va tutto liscio come l’olio, con la seconda manco per nulla).

  • Alla lettera R ho avuto un brivido: il mio bimbo era stato “marchiato” proprio dalle persone che avrebbero dovuto aiutarlo ad affrontare i suoi limiti, cioè le sue maestre alla materna.
    Tutto questo dopo nemmeno 40 giorni dall’inizio della scuola.
    A quel punto, le ho gentilmente salutate e l’ho portato altrove, lasciandolo nelle mani di altre educatrici, stavolta competenti e impegnate a valorizzare e non ad etichettare.

    • Cara Ele, quanto ti capisco! Alla fine del primo anno a Panama, dopo sei mesi di scuola, le mie figlie parlavano bene spagnolo (pur essendo in una scuola francese, ma con personale panamense e soprattutto grazie a Rocio, la signora che mi aiutava in casa). La maestra di spagnolo, nella valutazione di Priscilla, scrive: la bambina è troppo timida e non ha fatto nessun progresso in spagnolo, non parla, dovreste parlare spagnolo a casa (??? Italiani???) per aiutarla e farle sviluppare più socialità perché è troppo chiusa.
      MIA FIGLIA? Ahahah. Le ho chiesto perché non parlasse alla maestra.
      “Perché non mi piace”. (Le ho comunque spiegato che non andava bene, e che si parla anche a chi non ci piace, ma aveva pur sempre 4 anni).
      L’anno successivo, la maestra cambia. La nuova è una ragazza spagnola che l’anno prima si occupava dei bambini per qualche attività, quindi la conoscevo. Le parlo: le dico guarda, Priscilla può sembrarti timida, ma non lo è. Basta saperla prendere ed è la bambina più espansiva del mondo. Quindi se per caso non parlasse, non mollare!
      Beh, sai cosa c’era scritto alla fine dell’anno nella sua valutazione? Che Priscilla faceva da interprete per i bambini che non capivano lo spagnolo o il francese.
      Alla faccia della timidezza 🙂
      E quest’anno ho fatto lo stesso. Alla maestra a Parigi ho detto: se non parla, non è perché è timida. È perché studia le persone. Non è una chiacchierona come la sorella, in classe, ma il suo dovere lo fa!

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