Quando sono nata mio fratello aveva quasi 12 anni. Era un bambino turbolento, secondo mia mamma, e lei aveva aspettato così tanto tempo perché prima non se la sentiva proprio di fare un secondo figlio. Io ero l’opposto di mio fratello, a detta di mia mamma: calma, pacifica e senza grossi colpi di testa.
Sono cresciuta figlia unica, perché lui se n’è andato di casa a 18 anni, per fare il servizio militare, e per me era come un adulto qualsiasi. Avremmo potuto continuare così, mantenendo questa distanza che ci aveva sempre, per forza di cose, divisi: lui abitava in un’altra provincia, lo vedevo raramente e non avevamo niente in comune, se non il DNA.
Eppure, un giorno, ci siamo uniti. Entrambi cresciuti soli, entrambi senza nessuno con cui litigare, con cui confrontarsi, con cui dividere spazi e affetti, ci siamo ritrovati in un mondo parallelo, in cui io ero un’adolescente e lui ormai un uomo, io la cocca delle sue fidanzate, lui quello che mi portava nei locali alla moda.
Quando abbiamo perso nostro padre, mio fratello è stato il mio supporto più grande. Si dice che chi perde i genitori faccia parte di un « club » e che tutti gli altri non possano veramente capire, e a chi perde gli stessi genitori basta guardarsi negli occhi, un istante, per affondare tutto il dolore e tornare a galla, tendendosi per mano senza bisogno di farlo. Noi, che pure non eravamo cresciuti insieme, ci siamo presi per mano a centinaia di km di distanza e a modo nostro ci siamo sostenuti, colmando il vuoto l’uno dell’altro, ognuno coi propri mezzi, coi propri gesti. È me che ha chiamato per chiedermi consiglio quando ha deciso di sposarsi. È lui che ho chiamato quando, tornata da Panama, dovevo gestire il trasloco e la nuova casa da sola: lui non ha esitato un momento, si è preso una settimana di ferie ed è venuto da me.
Lui è il mio migliore amico, anche se siamo tanto diversi. E vorrei che per le mie figlie fosse lo stesso: ho fatto la scelta opposta rispetto a mia mamma, ho preferito « tutto e subito » e le mie figlie non sapranno mai cosa significa crescere da sole. Meglio? Peggio?
Io credo che condividere sia sempre meglio. Io credo che avere qualcuno su cui contare sia sempre meglio. Io credo che ci sia sempre una migliore alternativa, alla solitudine: alla solitudine delle domeniche infinite in giro tra parenti, alla solitudine dei primi innamoramenti, alla solitudine del non sapere a chi confessare un segreto, alla solitudine del vivere gioie e dolori…
Questa riflessione mi è venuta dopo aver visto in anteprima C’è Tempo, il nuovo film di Walter Veltroni, che affronta – tra i tanti temi – anche quello della solitudine. Due fratelli che si ritrovano per caso, tanto diversi quanto uniti da un profondo legame. Mi sono rivista adolescente a cercare l’approvazione di mio fratello, ho rivisto lui ormai adulto avere a che fare con una bambina che conosceva appena.
Ho rivisto anche le differenze tra le mie figlie, che cresceranno insieme eppure tanto diverse.
C’è Tempo è una commedia che fa riflettere, in maniera sorridente, su argomenti che spaziano dal rapporto tra fratelli alla sindrome di Peter Pan, dal valore dell’amicizia alle barriere tra grandi e piccoli. Barriere che si possono superare, rapporti che aiutano a far crescere tutti, a vedere la vita da una prospettiva diversa.
Il film uscirà questo giovedì 7 marzo nelle sale italiane e io vi consiglio di andarlo a vedere, anche coi vostri bambini. Perché c’è sempre tempo, per recuperare i rapporti, per fare una telefonata, per dire ti voglio bene… finché quel tempo non c’è più.
Perciò, approfittatene.