Ma chi te l’ha fatto fare? Riflessioni di un rientro in Italia dopo 11 anni

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Quando sono partita dall’Italia pensavo che sarei tornata dopo poco tempo, 3, 5 anni, non di più. Pensavo che avrei fatto una super esperienza da expat e poi sarei tornata nel paese che amo, con la gente che amo, i miei amici, la mia famiglia, le mie colline, il mio mare. Insomma, io adoro l’Italia.

Quando sono partita per la Francia avevo appena 28 anni ed ero incinta della prima figlia. Avevo un lavoro a tempo indeterminato, ottenuto velocemente, una bella carriera avviata in un’azienda solida, ma quell’esperienza ci pareva la cosa giusta al momento giusto: vivere a Parigi, nostra figlia nascerà a Parigi, wow! E così siamo partiti, per il lavoro di mio marito.

I primi tempi per me sono stati durissimi. Tra la fatica di imparare bene la lingua in una città non proprio amica degli stranieri, tra la fatica di essere una mammà italiana senza lavoro, vi assicuro che è stato complicatissimo. Ad ogni colloquio, veniva fuori che ero italiana, che non parlavo perfettamente (ci avevo anche scritto un post, su quel colloquio in cui il tipo mi disse: ma è sicura di capire tutto al telefono? E vi assicuro che parlo bene, molto bene), che avevo una figlia e come mi organizzavo? Mio marito che faceva, era presente?

Però poi come in ogni cosa, in ogni relazione, tutto si era aggiustato. Avevo deciso di fare un master, bellissima esperienza, avevo avuto un’altra bimba prima dei 30 anni e mi ero reinserita nel mondo del lavoro. A mio marito hanno proposto di restare, e insieme, in questo nuovo equilibrio molto fragile economicamente (l’affitto altissimo, la babysitter per forza, il nido carissimo) abbiamo deciso di costruire la nostra vita, certi che un giorno sarebbe andata meglio. Ed è andata meglio, in effetti.

È andata meglio perché a Parigi, nonostante tutto (i mille cambiamenti, l’espatrio a Panama, l’età, la nazionalità, la lingua) ho sempre trovato lavoro quando l’ho cercato. Perché via via abbiamo guadagnato di più, e far quadrare i conti non era più un problema. Soprattutto perché abbiamo scoperto che quando hai due figli, e magari impieghi delle persone (pagando loro i contributi, la tata, la signora delle pulizie, maestra di musica a domicilio, che tra parentesi costava la metà che a Milano), praticamente le tasse invece di pagarle te le rendono. Anche all’ultima dichiarazione dei redditi ci hanno rimborsato non pochi soldi. Senza contare che, quando ho deciso di aprire la partita iva, ho scoperto non solo che avrei pagato l’1,7% di tasse, ma anche soltanto il 5% di contributi, per due anni (poi 11%) perché iscritta alle liste di disoccupazione. E vogliamo parlare delle spese mediche? Grazie al sistema praticamente obbligatorio di assicurazione complementare, pagata a metà dalle aziende (e una sola basta a coprire le spese di tutta la famiglia, non importa che ce l’abbiano entrambi i coniugi), non ho mai pagato un euro di spese, nemmeno il dentista, o gli occhiali da vista, niente.

Ma che sei tornata a fare?

Un giorno, durante il lockdown, quel momento in cui vivevamo in 70mq e non avevamo nemmeno i vicini con cui vederci dalla finestra perché i vicini li conoscevamo appena, e le nostre mamme, una over 70 e una over 80 erano sole a casa, per di più in due regioni diverse d’Italia, a mio marito hanno offerto un lavoro. Durante il lockdown. Un lavoro a Milano.

Ho passato così tante notti a non riuscire a dormire, e ora lo posso anche dire, a piangere per la paura che non lo prendessero, non mangiavo, ero sempre tesissima. A lui non lo dicevo, per non scaricargli addosso la responsabilità di tutto. Ma da quando è stato chiamato la prima volta io avevo solo un desiderio: che lo prendessero.

Ho avuto sì momenti in cui mi sono detta: sarà la cosa giusta? Soprattutto quando abbiamo visto che la stessa RAL, in Francia e in Italia, corrisponde ad un netto molto diverso (a svantaggio proprio dell’Italia, of course). Soprattutto quando abbiamo dovuto scegliere una scuola a caso, quella di quartiere, chiedendoci se fosse la scelta giusta, ma non avendo alternativa, visto che era già luglio.

La nostra preoccupazione più grande era per il futuro delle nostre figlie. Che per quanto durante il lockdown non abbiano praticamente fatto niente del programma scolastico, non sia esistita la dad e anche la didattica in generale francese mi lasci abbastanza perplessa, ecco nonostante tutto questo mi sembrava che andasse tutto bene e avevo paura che questo tutto bene si rompesse, si spezzasse per colpa mia, nostra. Per il nostro egoismo di voler tornare a casa, alle nostre abitudini, alle mie colline e al mio mare, alle mie amiche, al ricordo della nostra infanzia, di giorni che le mie figlie non hanno mai conosciuto.

Loro sono state contente: il nostro entusiasmo le ha contagiate. È bastato parlare di pizza, nonne, zii, mare, boschi con i funghi e le castagne, persone allegre, vita più facile, vacanze più belle, e loro si sono convinte, e sono venute qui con l’entusiasmo che solo i bambini sanno avere.

Ieri mia figlia maggiore ha scritto una lettera alla sua migliore amica: sono inseparabili dal 2013. Mentre notavo che continua a scrivere molto meglio in francese che in italiano, e mi chiedevo se arriverà un momento in cui non saprà più scrivere l’una e non avrà mai imparato l’altra, e mi faceva male la pancia pensandoci, ho letto: sai, qui è un casino, abbiamo tantissime maestre, ma tante non ci sono ancora, tipo quella di italiano.

Già. Oggi è il 16 ottobre, e mia figlia, in quinta elementare, in una scuola piuttosto centrale di Milano, non ha ancora fatto un solo giorno di italiano. Mi ero detta: dovrò trovare una ragazza che le aiuti con le basi, sapete l’h, il ch, gli, sc, queste cose che si imparano subito, all’inizio. Ma no, dai. Leggono tanto, hanno scritto tanto con me, basterà poco. Ecco, quel poco non c’è, e mia figlia dovrà affrontare la prima media così, con già un mese in meno di italiano, chissà quanti ancora.

La piccola, lei non ha quella di matematica. Almeno sta recuperando bene sull’italiano, anche se ora la h la mette ovunque.

Il tempo pieno è iniziato solo due giorni fa. I bagni puzzano di pipì, la carta igienica devono portarsela loro. Gli zaini sono così pesanti e hanno così libri che loro stesse si chiedono: ma davvero servono tutti? Tralascio le norme covid, quelle sono una cosa a parte e non voglio discuterle.

Ma chi te l’ha fatto fare?

A volte me lo chiedo, mentre cerco di convincermi che le mie figlie sono bambine che fino ad ora hanno vissuto almeno venti vite, e quindi poco male se perderanno qualcosa per un mese, o due, o chissà. Mi dico che in qualche modo recupereranno a casa.

Mi dico che comunque in Francia il programma faceva schifo e non avevano mai fatto un tema né un’interrogazione.

Mi dico tante cose, ma vi giuro che a volte mi sento in colpa, e mi sento proprio a disagio.

Ma chi me l’ha fatto fare?

Poi scendo in strada, mi guardo intorno, e mi sento a casa.

E quando per undici anni ti senti nel posto sbagliato, pur stando bene eh, ma comunque nel posto sbagliato, quando finalmente ti senti a casa capisci perché l’hai fatto.

E va bene così.

Sperando che questa Italia cambi, almeno un po’, nel frattempo.

Ma chi te l’ha fatto fare?

L’amore me l’ha fatto fare, sempre lui, l’amore.

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